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PD: ripartire da Spinelli

Appello di militanti federalisti europei a Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico

“Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori
nei quali noi abbiamo creduto… Abbiano coscienza dei loro doveri
verso se stessi, verso la famiglia…, verso il paese,
si chiami Italia o si chiami Europa”



Giorgio Ambrosoli alla moglie Annalori

Caro Segretario,

Come militanti del Movimento federalista europeo, fondato da Altiero Spinelli, e politicamente vicini al Partito democratico, guardiamo con preoccupazione all’incertezza sempre più evidente, denunciata ormai anche dalla stampa, riguardante l’identità culturale e il radicamento storico di un partito che intende perpetuare e rilanciare i valori del patto costituzionale con cui è nata la nostra Repubblica, raccogliendo attorno a questo obiettivo il maggior numero possibile di elettori. Il Pd non sembra infatti riflettere adeguatamente – anche se recenti iniziative appaiono come primi segnali di ripresa – né sul progetto che esso intende proporre per affermare la propria leadership, né sull’eredità politico-culturale di cui dovrebbero essere portatrici le sue componenti.

Come è noto, il Pd è nato nell’ottobre 2007 quale entità nuova, e dunque mirante a introdurre un fattore di trasformazione nel quadro politico nazionale, in parte in risposta all’affermarsi della cosiddetta seconda Repubblica e in parte per completare il processo di adeguamento al venir meno delle contrapposizioni della guerra fredda, a seguito del tracollo del comunismo.

Il nuovo partito, richiamandosi a esperienze e modelli statunitensi e perpetuando al tempo stesso concetti di democrazia condivisi sia dagli eredi della Democrazia cristiana più sensibili alle istanze sociali, sia dalla cosiddetta democrazia laica e sia ancora dagli ex dirigenti e militanti del Partito comunista italiano, considerato nella sua originalità e specificità rispetto al regime sovietico, intendeva unire in un solo soggetto politico le forze convintamente eredi della Resistenza e dell’antifascismo per contrapporle più efficacemente ad uno schieramento moderato sostanzialmente populistico e ideologicamente composito, raccoltosi sotto la guida di un imprenditore fattosi uomo di Stato per un grumo di interessi decisamente lontani da quello collettivo.

Tale disegno, maturato sulla felice esperienza di un dialogo fra laici e credenti impegnati politicamente in una delle realtà più significanti dell’Italia postbellica, introduceva sicuramente un fattore di chiarezza e di coerente spinta riformatrice nel quadro politico, proponendosi in primo luogo di adeguare, nel rigoroso rispetto della Costituzione, gli schemi dell’esercizio del potere e della rappresentanza a quelli dei paesi occidentali di più sicura tradizione democratica, tutelando al tempo stesso le fasce meno favorite della popolazione, insieme ai valori egualitari radicati nella cultura dei partiti popolari.

Sulla base di tale impostazione ed affidandosi alle personalità culturalmente più partecipi di tale visione, non a caso ampiamente eredi delle concezioni di Altiero Spinelli, il Pd puntava a garantire una seria e affidabile gestione di governo, seppur contrastata sia dal frammentario rivendicazionismo di residuali aggregazioni partitiche della sinistra, sia dalle persistenti conflittualità interne, dovute, oltre che a rivalità personali, alla incompleta conciliazione delle componenti che avevano dato vita al nuovo partito.

Per la verità, un’inadeguatezza di fondo risiedeva nel progetto politico stesso del Pd ove questo, nel dichiararsi forza alternativa allo schieramento promotore della seconda Repubblica, finiva per accreditare quest’ultimo come legittimo antagonista democratico, quando invece nella discesa in campo del cavaliere di Arcore emergevano da sempre elementi inaccettabili di distorsione dei principi, dei valori e della legalità dello Stato nato dalla costituzione repubblicana, dai quali elementi sarebbe stato indispensabile prima o poi liberarsi.

A ben vedere, il Partito democratico era chiamato a proporsi piuttosto come fattore di aggregazione di tutti gli eredi della Costituzione quarantottesca che non di cristallizzazione della contrapposizione fra due compagini, di cui una non risultava pienamente compatibile con lo spirito e i precetti della carta fondativa della Repubblica. Mancava infatti quell’idem sentire della cosa pubblica su cui, indipendentemente dalle differenziazioni partitiche, si fonda una statualità legittima e condivisa. Del resto, sarebbero stati i fatti, anche recenti, a dimostrare sia la necessità per il Pd di aggregare forze diverse purché animate da quell’idem sentire di fondo, sia l’opportunità che a porsi alla guida dello stesso schieramento moderato, convergendo verso il centro, siano elementi compatibili con le tradizioni repubblicane postbelliche, foss’anche separandosi nel tempo dal Partito democratico, che al processo di riaffermazione dei valori fondanti dell’Italia nata dall’antifascismo ha dato insostituibile impulso.

Purtroppo, a tale vocazione, ossia a farsi centro propulsivo del pieno adeguamento della democrazia italiana ai modelli occidentali di funzionamento, nel saldo contesto della carta costituzionale, vero atto di rifondazione dello stato italiano dopo la tragedia del fascismo, il Partito democratico, una volta estromesso (estromessosi?) dal governo, ha finito per rinunciare in misura via via crescente (salvo le recenti, incoraggianti iniziative ricordate in esordio, peraltro ancora incentrate su alleanze, schieramenti e riforma elettorale, che non su programmi e temi identitari).

Alla visione strategica si sono infatti man mano sostituiti: vuoi una politica del giorno per giorno, mirante ad assecondare gli occasionali orientamenti dell’elettorato, spesso valutati con logiche televisive e demoscopiche; vuoi l’aspirazione – peraltro non priva di giustificazioni, seppure, allo stato, non troppo pagante – a riavvicinarsi alle dinamiche europee di contrapposizione fra socialdemocrazia e conservatorismo liberal-liberistico; vuoi ancora il desiderio dei singoli leader del Pd di perpetuare le proprie posizioni di potere (tradizioni politico-culturali, elettorati consolidati, reti di sezioni e relative infrastrutture, realtà economiche collegate). E questo anche a costo di rilegittimare la dirigenza avversaria, rientrata ai posti di comando, ovvero di mettere ai margini ampie componenti dell’elettorato, indispensabili al raggiungimento della maggioranza del consenso, che era poi l’obiettivo originario su cui era stato costituito il partito stesso.

L’esempio e il messaggio di Altiero Spinelli. Una risorsa fondamentale

Oggettivamente, tra le ragioni di questa inadeguatezza di concezioni e progetti sta per molti aspetti la mancata attuazione di un completo ripensamento della propria storia da parte della componente ex comunista del Partito democratico, la quale ha finito per perpetuare l’antica renitenza ad una radicale revisione ideologica – da accompagnare all’elaborazione di un nuovo manifesto fondativo – già evidente nell’epoca di Enrico Berlinguer, malgrado la sostanziale adesione del partito alla democrazia repubblicana e gli orientamenti assunti dall’allora segretario del Pci. Una renitenza palesemente confermatasi allorché si preferì attendere il crollo del comunismo sovietico prima che il Partito mutasse il proprio nome. Tutt’oggi si può constatare una ritrosia a prendere in modo circostanziato le distanze dagli errori ripetuti fin troppo a lungo, sia in termini di adesione al comunismo in sé, sia di scelte politiche di fondo, fra cui, determinanti, non solo l’opposizione alle Comunità europee anni Cinquanta, ma anche al Sistema monetario europeo, alla fine degli anni Settanta, che di fatto avrebbe estromesso per lungo tempo il partito dalla gestione della politica italiana.

Allo stato dei fatti, un pur comprensibile senso di fedeltà alla propria militanza, la consapevolezza dei sacrifici compiuti e del contributo nel complesso offerto alla democrazia italiana, la resistenza psicologica a dissolvere il proprio patrimonio organizzativo e di dotazioni, un qualche grado di settarismo hanno contraddittoriamente concorso ad impedire l’elaborazione di un rinnovato progetto politico a carattere generale, in grado, tra l’altro, di valorizzare anche le tradizioni del socialismo democratico e riformista italiano, eredi della prima e della seconda Internazionale, che non possono essere dimenticate o cancellate dalla memoria del movimento progressista italiano. Appare davvero sconcertante, infatti, che grandi figure emblematiche, a partire da Garibaldi stesso, presidente del Congresso della pace, dei diritti dell’uomo e della federazione europea, riunitosi a Ginevra nel 1867, a Filippo Turati, a Giuseppe E. Modigliani, a Claudio Treves, a Eugenio Colorni, a Pietro Nenni, a Carlo Rosselli e tanti altri risultino del tutto ignorate. E lo stesso può dirsi del pensiero laico e democratico, interpretato da Giuseppe Mazzini a Carlo Cattaneo, da Gaetano Salvemini a Francesco Saverio Nitti, da Ernesto Rossi a Ugo La Malfa e molti ancora, ai quali non viene tributato il dovuto riconoscimento. Eppure, senza una storia onorata e condivisa nessuna forza politica e nessuno stato può dirsi realmente tale.

Purtroppo, ciò che oggi emerge dal Pd è l’acrobatica conciliazione fra: a) le reticenze ex comuniste, che finiscono per creare il vuoto nel proprio passato, limitandosi al massimo a rivolgere seminascosti tributi di fedeltà a figure come quella di Togliatti, ovvero a inserire nel calderone dei propri riferimenti (vedasi un recente manifesto con cento santini) le personalità più diverse, da De Gasperi a Kennedy, a Gandhi, ma non, per dire, Spinelli o Colorni, ovvero ancora ad appropriarsi di mitologie mass-mediatiche di ascendenza democratico-statunitense, che avrebbero da sempre fatto premio, almeno fra i giovani della generazione postbellica, sulla venerazione dell’empireo stalinistico-sovietico; b) la crescente marginalità di ex democristiani di sinistra e di cattolici impegnati, convinti di condividere con gli antichi avversari – in fondo sempre ammirati, ma di fatto ampiamente estranei per formazione, esperienze, memorie, organizzazione – il senso di dedizione alla causa democratica, repubblicana e social-popolare; c) il protagonismo di chi rimane attaccato alla difesa della tenace tradizione reticente e del “patrimonio” accumulato nel tempo, a sua volta insidiato da chi invece preferirebbe una piena conversione al modello di partito democratico e di alternanza di fattezza statunitense, senza troppo riflettere sul proprio passato e senza troppo indagare sulla natura, che verrebbe da definire senza molta esagerazione demago-pluto-escortico-mafionica, non meno che clerico-affaristico-mediasettica, dei propri principali antagonisti; d) la tentazione giovanilistica di rinnovare dirigenti e parole d’ordine, puntando sul semplice rinnovamento anagrafico come generatore di superamento delle antiche cristallizzazioni e di più vasto consenso da parte del grande pubblico, malgrado il generale invecchiamento della popolazione e dei cittadini votanti.

Ora, a noi sembra che la ricerca di un progetto generale e al tempo stesso l’affermazione di un radicamento storico della tradizione democratico-costituzionale nel nostro paese, che restano essenziali per emanciparsi dalla società dell’effimero e confrontarsi con le enormi urgenze del presente, vada effettuata in primo luogo attraverso la piena assimilazione tanto della proposta politico-culturale di Altiero Spinelli – la costruzione della federazione democratica europea (e dell’Italia europea in essa) – quanto della sua esperienza di militante, vissuta da precursore all’interno della vicenda storica dei movimenti popolari e antifascisti.

Giovane dirigente comunista incarcerato dal regime già nel ’27 e mantenuto in reclusione fino al ’43, il futuro protagonista del primo parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979 avrebbe maturato in carcere una profonda revisione dei fondamenti del marxismo e del comunismo per giungere a proporre, nell’ormai celebre Manifesto di Ventotene, scritto in sostanziale di contrappunto con il Manifesto del 1848, la sostituzione del principio della lotta di classe con quello del superamento della sovranità assoluta degli stati e della instaurazione, con metodo costituente, della democrazia federale europea. Tale soluzione sarebbe stata in grado, come effettivamente dimostrato dall’esperienza storica, peraltro ancora in corso, di garantire la pace permanente, la libertà, lo sviluppo e il benessere dei lavoratori in maniera incomparabilmente maggiore rispetto al cosiddetto socialismo reale, o regime comunista che si voglia definirlo.

Senza entrare in mille dettagli, la partecipazione di Spinelli alla Resistenza europea, la fondazione, nell’agosto del ’43, del Movimento federalista europeo assieme a personalità di altissima levatura dell’antifascismo, la sua decisa scelta di campo occidentale (ma sempre contraria ad eventuali progetti egemonici statunitensi) durante la guerra fredda, la sua dedizione infaticabile alla causa della federazione democratica europea, nonché – fatto notevole per tutta Europa, concordato con Enrico Berlinguer su proposta di Giorgio Amendola – la sua elezione come indipendente nelle liste del Pci, tanto a Roma e che a Strasburgo (con l’obiettivo di trasformare l’assemblea europea in una costituente, ma al tempo stesso di mettere al servizio della causa dell’Europa federale la notoria, innegabile dedizione dei comunisti italiani), descrivono un arco politico ed esistenziale esemplare. Una mirabile e sicura traiettoria che conferma la sussistenza di un filo conduttore virtuoso, sia pure con ritardi e consapevolezze diverse, all’interno del movimento operaio e democratico italiano, di cui non si può e non si deve restare dimentichi.

Non solo, giacché l’impegno per la creazione di istituzioni democratiche europee, con l’Italia in posizione trainante, ha costituito uno dei più importanti fattori di dialogo e di condivisione di obiettivi generali – si pensi alla collaborazione di Spinelli con De Gasperi, con Nenni, con Berlinguer – fra elementi di primo piano delle diverse forze politiche eredi della Resistenza. Tanto che si può affermare che il Partito democratico costituisca oggi il punto di riferimento e di incontro più naturale per chi provenga da quella storia e da quel comune sentire del futuro del proprio popolo, di tutti i popoli europei e del mondo intero, in vista del progresso della umanità e della persona, dell’uguaglianza e della pace, che costituisce la comune sostanza valoriale dei movimenti popolari del nostro paese e non solo di esso.

Nessuna società politica democratica, del resto, può vivere sulla semplice gestione dell’esistente, o sull’appagamento di occasionali istanze dell’elettorato, rinunciando a proporsi una missione di carattere generale, che costituisca un bene, un fattore di progresso, per l’intero consorzio umano. Per il Manifesto di Ventotene, scritto insieme a Ernesto Rossi e in collaborazione con Eugenio Colorni – e non a caso instancabilmente valorizzato dall’attuale presidente della Repubblica – la federazione democratica europea costituisce infatti, in primo luogo ed eminentemente, un traguardo di superiore civiltà nella storia del mondo.

Ad onor del vero, va anche osservato che nell’ultimo Spinelli, il quale aveva pur difeso a spada tratta la validità e l’affidabilità della scelta europea del Pci, era subentrato nei confronti di quest’ultimo un senso di delusione per l’insufficienza dell’apporto fornito all’iniziativa costituente lanciata dal nostro “Ulisse” (questo il suo significativo nome di battaglia, tra omerico e dantesco) e mirante all’instaurazione di una completa Unione europea, poi parzialmente istituita con il trattato di Maastricht. Colui che in sede europea viene ufficialmente annoverato fra i Padri dell’Europa lamentava che il Pci inclinasse semmai ad un proprio cauto inserimento nella “normalità” della socialdemocrazia europea, piuttosto che ad abbracciare decisamente la concezione federalista, ovvero quel pensiero politico compiuto elaborato a Ventotene in alternativa al marxismo e reputato in grado di produrre effetti ben più concretamente rivoluzionari di esso.

Sarà stata pure un’ingenuità dell’antico dirigente della Fgci formatosi alla scuola leninista, ma a suo avviso il Pci non riusciva a capire di dover finalmente dedicare le sue energie alla nuova causa, profeticamente individuata da un comunista come lui già negli anni più duri del fascismo e reputata tale da dover divenire obiettivo politico primario di un movimento politico pienamente democratico: un movimento desideroso, beninteso, non già di adattarsi al “gioco” dell’alternanza in un contesto nazionale statico, bensì di dar vita al salto di civiltà, all’innovazione qualitativamente decisiva cui si è accennato poco più sopra. Il Pci continuava invece a oscillare ossessivamente fra passato e presente, fra Est e Ovest, fra realtà concreta e mitologie, fra sentirsi dentro e sentirsi fuori, abdicando al dovere di darsi una visione generale e un progetto politico di adeguato respiro.

Personalmente restiamo convinti che la “provocazione” di Spinelli, pur venata di un certo solipsismo proprio dei precursori, resti oggi più attuale che mai, soprattutto tenendo conto che nell’attuale fase di implosione-decostruzione del sistema politico della cosiddetta seconda Repubblica il Partito democratico, insieme alle forze politiche legate all’eredità costituzionale, è chiamato precisamente a proporsi un disegno politico di grande portata e non soltanto a prospettare una normale alternanza, in vista della soluzione di singoli problemi affrontabili nello spazio di una o due legislature.

Un patto con gli europei

Ebbene, tale disegno politico complessivo si incentra proprio sul compimento del progetto di unificazione federale dell’Europa da parte dei paesi e delle forze politiche disposti a dar rappresentanza e istituzioni al popolo costituzionale europeo. E questo non già o non soltanto per la suggestione dell’obiettivo in sé, oggettivamente virtuoso e affascinante, bensì anche per la consapevolezza, tutta spinelliana, ma radicata già nel Risorgimento, dell’identificazione fra interesse nazionale italiano ed edificazione della democrazia federale europea, nonché della vocazione italiana ad esercitare un ruolo di mediazione e di impulso in tale direzione.

Anche le recenti vicende della crisi finanziaria internazionale dimostrano quanto abbia giovato alla solidità economica del nostro paese la sussistenza di un quadro istituzionale europeo, mentre la pressione della globalizzazione sui sistemi produttivi lascia temere un inasprimento delle condizioni dei lavoratori, ove non sussista un’adeguata area di statualità in grado di tutelare i settori più minacciati della società, assicurando al tempo stesso alle imprese l’efficienza complessiva dell’ambiente in cui effettuano gli investimenti, al fine di controbilanciare i vantaggi delle delocalizzazioni e fronteggiare la concorrenza internazionale. Non meno importante è promuovere tale area di statualità per evitare, come già succede nel nostro paese, che le vere o presunte esigenze della competizione internazionale impongano un’egemonia dei venditori-produttori sui consumatori-lavoratori tale da protrarre eccessivamente la giornata lavorativa o penalizzare la natalità e le famiglie, abbassando i salari dei giovani e la protezione sociale, nonché addirittura minacciando di licenziamento le donne in maternità.

Ora, che questi obiettivi siano perseguibili in un quadro puramente nazionale è illusione denunciata da tempo ed evidente ai più, al di là della constatazione che i maggiori paesi europei sono riusciti a tutelarsi parzialmente dagli effetti socialmente devastanti della globalizzazione. Costoro riescono a difendersi meglio degli altri grazie alla loro condizione di forza relativa ed anche alla sussistenza di un mercato unico europeo considerato spesso come “giardino di casa”, ma non certo perché possano permettersi di aspirare ad un ritorno alla sovranità assoluta, come dimostrano anche le recenti concessioni in vista della creazione di un sistema europeo di gestione-controllo della finanza e dell’economia, a dispetto di iniziali affermazioni contrarie, pronunciate all’insegna del virtuosismo nazionale.

Altrettanto evidente risulta dunque il fatto che il nostro paese, certo non privo di elementi di debolezza strutturale, potrà garantirsi da nuove e forse più imponenti crisi economico-finanziarie, oltre che da attacchi allo stato sociale, solo se l’Unione europea – o almeno il suo nucleo più coerente, di cui l’Italia deve essere assolutamente partecipe – sarà in grado di proseguire verso una reale unione economica, da affiancare a quella monetaria, che sia dotata degli strumenti politico-istituzionali non soltanto di difesa dell’esistente, ma anche di rilancio degli investimenti, della ricerca e delle innovazioni tecnologiche. Una Unione, in altre parole, abilitata ad esercitare un ruolo attivo nei settori strategici, se non di proporre un modello di società della conoscenza, della produzione diffusa, della tutela della persona, da imitare nel contesto internazionale.

Per ottenere questo, tuttavia, vale a dire perché sia possibile stringere un patto di natura federale fra i contraenti, è assolutamente indispensabile che sussista non soltanto la determinazione di forze politiche consapevoli e all’altezza del compito, ma anche un rapporto di fiducia fra i detti contraenti, un foedus fondato sul rispetto rigoroso della legalità, delle regole stabilite e delle procedure concordate, oltre che sulla condivisione delle concezioni della democrazia. Altrettanto evidente risulta a tale riguardo che l’Italia berlusconiana, rivelatasi ogni giorno di più nella sua natura tanto affaristico-illegale quanto inquinata da insopportabili conflitti di interesse e da insidie al potere costituzionale della magistratura, se non alla Costituzione in sé, non risponde alle esigenze elementari in base alle quali i potenziali, indispensabili partner del processo federale siano disponibili a cedere ulteriori poteri sovrani ad istituzioni comuni. Anzi, ne costituisce un oggettivo, rilevantissimo impedimento.

Il che, pur tenendo conto degli immancabili egoismi particolaristici di ogni società nazionale, risulta comprensibile ed assolutamente giustificato: l’eventuale sensazione di un peggioramento delle condizioni di legalità del sistema democratico, a questo punto divenuto largamente federale, e pertanto meno controllabile da un singolo paese, indurrebbe una crescente disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni dell’Unione e della democrazia in quanto tale, con effetti che la nostra quotidiana esperienza percepisce ormai, nel nostro ambito, come inaccettabili e devastanti.

L’Europa, quindi, non può più valere per il nostro paese come puro condizionamento esterno, in grado di indurre comportamenti virtuosi all’interno. Al contrario deve trasformarsi nell’impegno attivo e propositivo, in forza del quale il quadro nazionale viene parallelamente e consapevolmente trasformato in fattore esemplarmente trainante della comune costruzione, oggi sempre più necessaria per poter agire come interlocutori del resto del mondo.

Si può peraltro riconoscere che l’attuale gestione della finanza pubblica italiana, con il presumibile concorso della Lega, abbia evitato la degenerazione dei conti del paese che si era profilata invece nei precedenti governi della destra, quando l’euro e l’Europa stessa venivano denigrati e additati come la causa dei mali socio-economici. Tuttavia l’esercizio del rigore, stante l’impossibilità, in regime di euro (ovvero di condizionamento esterno), di interventi a carattere inflazionistico ai fini di riequilibrio delle partite di bilancio in funzione dell’occupazione o degli investimenti, è stato sostanzialmente eseguito mediante tagli alla spesa spesso e volentieri a carico dei settori maggiormente trainanti e produttivi, piuttosto che con una dolorosa azione di trasferimento di risorse da settori parassitari a produttivi. Né di certo è stato perseguito un implacabile – ma al tempo stesso accorto – contenimento dell’evasione fiscale, o si è proceduto alla liberalizzazione di ambiti protetti da legislazioni corporative. Un’azione questa che è stata compiuta invece da altri paesi – in primis nel campo fondamentale del rifinanziamento dell’istruzione e della ricerca, malgrado la crisi – e che risulterebbe oltretutto meno onerosa se svolta in un contesto di rilancio degli investimenti a livello dell’Unione.

Si impone in sostanza, da parte del nostro paese, l’urgenza di un “patto con gli europei”, grazie al quale il progresso dell’integrazione verrebbe scambiato con: a) un coraggioso riassetto della finanza pubblica, unito al rilancio della produttività e degli investimenti; b) un impegno ferreo a emendare la penisola dalle note deficienze organizzative e dagli aspetti inaccettabili di illegalità e criminalità – ivi compresa la presenza di pregiudicati e indagati, talvolta addirittura per mafia, nel parlamento e nel governo – che ancora impediscono alla società italiana di essere accolta a pieno titolo nell’avanguardia del mondo occidentale e di trarne i vantaggi conseguenti, per sé e per gli altri paesi dell’Unione.

A fronte dell’attuale continuo, autolesionistico e introflesso battibecco personalistico tra le forze politiche nazionali, tale impegno di riscatto nazionale, di natura risorgimentale e neoresistenziale, compiuto nella coincidenza dei 150 anni dell’unità d’Italia e offerto all’intera Europa, appare l’unico in grado di conferire al soggetto politico che intenda proporlo e perseguirlo l’autorevolezza e la giustificazione per agire con determinazione assoluta sulle attuali manchevolezze del paese, in vista del compimento della costruzione della democrazia italiana nel momento stesso in cui essa si rende protagonista dell’indispensabile raggiungimento dell’unità politica europea. L’esperienza dimostra del resto come gli italiani, a suo tempo chiamati a corrispondere la cosiddetta tassa per l’Europa pur di aderire alla moneta unica, siano disponibili ai sacrifici e al disinteresse, ove collocati in una prospettiva generosa e sanamente patriottica.

Ma tutto ciò è solo un lato della medaglia. L’altro aspetto, più lusinghiero e incoraggiante, è che i dirigenti del nostro paese, nei decenni del dopoguerra, hanno saputo svolgere un accorto lavoro di promozione della costruzione europea e di mediazione fra gli interlocutori maggiori, rivelatosi in numerose occasioni come indispensabile e decisivo. Si pensi per esempio, al di là del ricordato contributo di Spinelli, alla lontana conferenza di Messina del 1955, o alla determinazione con cui i governi sottoscrissero i trattati comunitari malgrado le opposizioni degli ambienti economico-industriali, o al Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985, o alle vicende del trattato di Unione politica e di Unione economico-monetaria (trattato di Maastricht) e si avrà la conferma di tale preziosissimo apporto, volentieri riconosciuto anche in sede europea.

Per ottenere tali risultati, tuttavia, era indispensabile una profonda conoscenza dei principi, dei meccanismi e delle logiche della costruzione europea, laddove oggi sussiste una profonda indifferenza verso tali aspetti, come si può constatare dall’assenza di riferimenti alla Ue (con cui pure condividiamo una moneta e un mercato unico e tanto altro ancora) negli interventi programmatici, anche recentissimi, di tanti leader politici; dai marchiani errori comparsi sulla più accreditata stampa nazionale in tema di Unione europea, ripetutamente confusa con il Consiglio d’Europa; o dall’assenza di un dibattito realistico su tematiche capitali come gli effetti dell’allargamento dell’Ue. Soltanto a titolo di esempio, si dibatte all’infinito, seppur confusamente, sul federalismo interno, con relative minacce di separatismo, ignorando che nel frattempo la moltiplicazione di stati presunti sovrani – argomento fin troppo spinelliano – nei Balcani o altrove finisce per deformare sempre di più gli assetti istituzionali dell’Unione, creando uno squilibrio insidiosissimo fra Europa reale ed Europa formale.

Se non fosse stato per l’allarme lanciato dalla corte costituzionale tedesca (e ignorato in Italia) in occasione della ratifica del trattato di Lisbona, chi si sarebbe accorto che il peso specifico del voto di un cittadino italiano o tedesco per il Parlamento europeo vale incredibilmente meno di quello di recenti adepti all’Ue, peraltro prossimi ad essere raggiunti, con ulteriore inaccettabile deformazione, da un vero polverio di altre nazionalità? E non è questa una necessaria, indispensabile riflessione a tutela dei legittimi interessi nazionali, oltre che dell’irrinunciabile principio democratico “one man, one vote”? O si preferisce continuare con il principio “tanti stati, tanti posti di comando”, al punto che quasi quasi converrebbe a tutti che la Padania, o il Mezzogiorno, o tutte le regioni del Belpaese diventassero indipendenti? Per lo meno, i posti riservati agli italiani si moltiplicherebbero, insieme al diritto di veto su questioni fondamentali dell’Unione, tuttora concesso dal trattato di Lisbona ai singoli stati e staterelli.

Insomma, a volersene rendere conto, e a parlarne nei programmi politici, forse l’occasione per un serio dibattito sulla centralità della questione Europa e per vigorose iniziative politiche al riguardo ci starebbe sicuramente, magari anche chiedendo notizie sul funzionamento della nuovissima struttura della politica estera europea e del ruolo italiano in essa, che risulta evidentemente meno avvincente (provincialismo?, sì, come minimo) rispetto a qualunque minuzia della cronaca politica interna .

In breve, i temi così prospettati e le esigenze generali della società italiana, componente del nucleo fondante dell’Unione europea, richiedono l’emergere di una forza politica determinata a non fare del consenso di breve periodo il primo dei propri obiettivi, in vista dell’occupazione del potere e del sottopotere, bensì a proporsi come fautrice di trasformazioni di lungo periodo e di illuminata emancipazione sociale e culturale, come è proprio dell’identità migliore e più profonda di tutti i movimenti popolari di ispirazione democratica.

Non c’è dubbio che le violenze epocali della storia novecentesca, teatro delle ambizioni aggressive delle statualità nazionali, abbiano indotto anche nel movimento operaio reazioni eccessive e totalitarie, inasprendo gli animi delle masse e suggerendo soluzioni implacabili come risposta inevitabile alle conflittualità perseguite da governi che non esitavano a sacrificare milioni di vite umane per i propri disegni egemonici. Oggi è tuttavia venuto il momento di guardare con serenità ed anche spirito di autocritica a quanto accaduto, valorizzando al tempo stesso il patrimonio di sacrifici, valori, elaborazioni intellettuali, spirito di pace e tensioni di emancipazione espressi dai movimenti democratici, proponendo ai giovani e a tutta l’opinione pubblica l’indispensabilità di una visione di progresso universale che per tanti aspetti passa oggi per le prospettive indicate dal precursore Spinelli, uno Spinelli per parte sua sempre disponibile alla collaborazione con l’antifascismo laico e i cattolici “adulti”, cui tanto si deve nella vicenda democratica del nostro paese.

Tale progetto deve essere perseguito in maniera realistica e concreta, affermando, in primo luogo, la centralità della cultura, della scienza e della legalità all’interno di ogni reale azione di progresso, ma anche, aspetto non meno importante, valorizzando le pubbliche istituzioni (locali, nazionali e sovranazionali!), quali sedi di tutela dei diritti di cittadinanza (istruzione diffusa, lavoro, assistenza, previdenza), nonché di intervento per investimenti di interesse collettivo. Lo stato democratico, ai suoi diversi livelli, non va inteso infatti come apparato sovrastante la società, bensì come luogo di espressione della libertà e dello spirito di comunità. Tutti questi elementi costituiscono un requisito essenziale per assicurare gli effetti positivi stessi dell’economia di mercato e dell’iniziativa economica privata – ormai estesa all’intera dimensione mondiale – senza per questo subordinare l’uomo e la società alla ricerca del profitto come unico valore, al dominio straripante di gruppi monopolistici ed entità sovrane, o alle discrezionalità incondizionate dei detentori del capitale.

Un programma per l’Italia europea

Su queste basi potrà pertanto essere elaborato un programma politico, impostato sui seguenti punti prioritari.

Sul piano istituzionale europeo, è indispensabile promuovere, coinvolgendo università, studiosi, opinionisti, un’approfondita ricognizione sull’attuale assetto successivo a Lisbona, al fine di giungere ad una chiara definizione, in primo luogo sul piano dei principi giuridici, della natura di tale assetto, commisto com’è di elementi intergovernativi, funzionalisti e federalisti, e se esso possa essere accettabile nel lungo periodo, o necessiti sollecite riforme, in grado di assicurare una salda legittimità a esecutivo, legislativo e giudiziario in primo luogo. Che credibilità avrà, a titolo di esempio, una Corte di Giustizia formata da un giudice per ogni paese membro, al punto che fra breve la comparabilmente modesta realtà dell’Europa ex comunista vanterà una maggioranza di magistrati al suo interno? Approfondimenti da noi promossi hanno sottolineato la non sostenibilità della situazione. E non si corre il rischio, ancora, che il Consiglio rivendichi una maggiore legittimità democratica rispetto al Parlamento europeo, visto che il primo tutela il rapporto rappresentanza-popolazione meglio del secondo, pur escludendo dal proprio seno le opposizioni? Di sicuro il suo attuale presidente lo definisce già come il reale governo economico dell’Ue. In breve, continuare a compiacersi della pur arguta battuta per cui l’Ue sarebbe un ermafrodito, e come tale bisogna tenerselo, non convince più nemmeno gli autori di quel motto di spirito.

Si impone insomma l’urgenza di una riflessione politica e giuridica adeguata, da compiere con il concorso di tutte le forze politiche e intellettuali dell’Ue, nel contesto di uno spazio pubblico europeo, che è finalmente ora di costruire con adeguati strumenti di dibattito, comunicazione e pubblicizzazione, grazie anche al ricorso alle nuove tecnologie.

Sul piano economico, solo una grande serietà e determinazione dei componenti l’Unione può consentire, in primo luogo, l’accreditamento della proposta avanzata dalla Commissione europea, e respinta dagli stati maggiori, in vista dell’aumento delle risorse proprie dell’Ue mediante l’introduzione di prelievi fiscali europei. Inoltre, un piano europeo di investimenti per rilanciare l’economia e favorire la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile può essere finanziato con l’emissione di Union bonds, come è stato più volte proposto in passato ed è stato di recente sostenuto anche dal Presidente Barroso nel suo Rapporto sullo stato dell’Unione. D’altra parte, anche la recente decisione di Ecofin di istituire una sessione di bilancio condensata nel semestre europeo, pur utile nella prospettiva di un miglior coordinamento delle politiche fiscali degli stati membri, non è certamente in grado di superare i limiti del metodo di coordinamento, già più volte verificati in passato. In effetti, in assenza di un potere europeo, ogni stato avrà comunque convenienza a comportarsi da free rider e il coordinamento sarà effettivo soltanto nella misura, del tutto ipotetica, in cui vi sarà convergenza delle ragion di stato – ovvero degli interessi – dei diversi paesi.

In generale, va rilevato che il deficit democratico dell’Europa ha pesanti riflessi sulla concreta possibilità di attuare in tempi ragionevoli una politica fiscale comune, mirante a fronteggiare situazioni caratterizzate da esigenze di immediatezza ed emergenza, tra cui il sostegno a competitività e sviluppo e il contrasto delle crisi economico-finanziarie. Specie dopo l’ultimo allargamento a 27 stati, è anacronistico che permanga la regola dell’unanimità in materia fiscale. Dieci anni or sono, paventandone le conseguenze, la Commissione propose l’introduzione del voto a maggioranza qualificata almeno per le materie concernenti la previdenza ed il fisco che avessero un impatto evidente sulla realizzazione del mercato unico, ma la proposta non è stata accolta né risulta che sia di nuovo all’esame.

Per questo motivo, le direttive europee in materia fiscale hanno tempi di gestazione che ne attenuano notevolmente l’efficacia. Basti pensare, soltanto per fare alcuni esempi, alla direttiva sulla tassazione dei redditi del risparmio (diretta ad armonizzarne il sistema di tassazione e a contrastare la consistente evasione transnazionale), che fu inserita nel cosiddetto “Pacchetto Monti†del 1996: varata soltanto nel 2003, contiene una serie di modifiche che ne hanno indebolito la portata, causa il compromesso imposto da una esigua minoranza di stati membri che l’avevano osteggiata vedendo minacciati i propri interessi nazionali. Eppure Monti stesso, in anni ormai lontani, aveva messo in guardia contro gli effetti socialmente insidiosi della concorrenza fra gli stati, dediti ad attrarre capitali offrendo condizioni fiscalmente competitive: la retribuzione del lavoro, specialmente di quello meno qualificato, avrebbe raggiunto livelli inaccettabili. E si pensi anche alla proposta avanzata dalla Commissione per introdurre una Common Consolidated Corporate Tax Base (la cosiddetta CCCTB, diretta a creare un regime semplice ed uniforme di tassazione delle imprese che operano in ambito europeo), che risale al 2001 ed è tuttora in fase istruttoria nel tentativo di individuare una soluzione gradita alla totalità dei governi nazionali.

Nell’attesa della piena realizzazione dell’Europa federale (che risolverebbe in radice anche questo ordine di problemi), l’Italia dovrebbe farsi promotrice di una modifica dell’attuale sistema di voto delle norme (siano esse direttive o regolamenti) a contenuto fiscale, sostenendo l’esigenza di introdurre meccanismi basati sulla regola della maggioranza, qualificata dal riferimento al numero dei cittadini di ciascuno stato membro, che si avvicinino quanto più possibile al principio “one man – one voteâ€, assicurando (almeno tendenzialmente) il rispetto del fondamentale principio del consenso al tributo (“no taxation without representationâ€), pilastro di ogni democrazia degna di questo nome.

Altrettanto indispensabile risulta procedere ad una rivalutazione della proposta monnettiana dell’Euratom per la gestione di una comune politica energetica, ovvero delle iniziative assunte da Spinelli, tra il ’70 e il ’75 commissario europeo, in tema di tecnologie e ricerca, di promozione di un’industria aeronautica europea, di creazione di una politica comune dell’ambiente e di una legislazione comune in materia di: imprese (modello unico di impresa europea: euro-corporation), sicurezza sul lavoro, standard di fabbricazione comuni. Nel complesso, è stato osservato che circa un 60% delle proposte di Spinelli è già stato adottato in sede Ue, confermando la preveggenza e la visione del leader federalista, che già da lungo tempo sarebbe stato opportuno aver fatto proprie.

Appare dunque chiaro, a nostro avviso, che è necessario avanzare al più presto verso una forma federale di elaborazione e gestione delle più importanti politiche dell’Ue, anche a costo di creare un nucleo ristretto di paesi disposti a bruciare le tappe partendo dalla realtà dell’Eurogruppo.

In questo ambito, l’azione svolta dall’Italia per dare all’Europa una voce nelle maggiori sedi internazionali andrebbe intensificata, con sensibilità, costanza di orientamenti e dialogo costante con i membri dell’Unione, assicurando un ruolo di mediazione e di impulso.

Tra i grandi obiettivi che in questo contesto una forza politica, purché dotata di un patrimonio di idee e una carica ideale, è chiamata a perseguire ci sono la soluzione della questione palestinese grazie alla garanzia dell’Ue; l’organizzazione di uno spazio euromediterraneo in cui inserire, agendo a livello Ue, Consiglio d’Europa, Nato, Onu, anche i rapporti con la Russia e la Turchia; la costruzione di una politica estera e di sicurezza della Ue, comprendendo in essa anche il tema dell’esercito europeo, non meno che quello della presenza della Ue in quanto tale all’interno delle organizzazioni internazionali; la lotta alla fame nel mondo e il decollo delle aree sottosviluppate; la tutela degli equilibri ecologici; l’esplorazione dello spazio.

Quanto alle riforme interne al nostro paese e al metodo con attuarle, esse andranno accompagnate da un preventivo, sistematico confronto con quanto disposto nei paesi più rilevanti dell’Unione, ai quali ci uniscono, come si è detto, la moneta, il mercato unico, le normative comunitarie, il comune assetto istituzionale, etc. Prescindere da questo ambito significa mancare dei riferimenti indispensabili per un’efficace azione legislativa, quand’anche fosse caratterizzata da dissenso, a questo punto consapevole, ma pur sempre sottoposto alle comuni normative, rispetto ai partner.

In generale, sussiste la fondata impressione – corroborata da dati recenti di natura economica, nonché da pur contestati ammonimenti della Banca d’Italia – che gli europei, volendo evitare di diventare troppo tedeschi, debbano comunque diventare più tedeschi di quanto siano ora. Vale a dire, al di là dello scherzo, che appare indispensabile procedere ad una attenta valutazione dei criteri che hanno consentito al più grande paese europeo, grande sia in termini demografici che economici, di affrontare con maggior successo degli altri le difficoltà degli ultimi anni, tanto sul piano produttivo che su quello sociale. L’obiettivo deve essere di imitare tali criteri, ispirati all’economia sociale di mercato, adottandoli tanto in sede Ue che nazionale. Al tempo stesso varrà la pena di restare in guardia dalle tentazioni del “beggar-thy-neighbour”, da taluni rilevate in campo industriale e sindacale in riferimento a certo solipsismo politico-culturale della Repubblica Federale nei confronti del resto dell’Europa. Un compito, in altre parole, che richiede un’estrema capacità di riflessione, mediazione ed intervento.

In tale contesto, appare inoltre raccomandabile valutare con i partner il grado di equilibrio ottimale fra intervento pubblico a vario titolo, sia all’interno degli stati, sia dell’Unione, e intrapresa privata. Non è detto che la pura liberalizzazione, peraltro spesso non attuata dagli altri stati membri sul piano interno, sia l’unico strumento di dinamicizzazione della società e dell’economia, oltre che di tutela dell’occupazione e del lavoro. Molto si può attendere da programmi di investimento promossi dalla Ue stessa nei settori strategici, sia pure in un contesto di concorrenza fra imprese. Ma la dovuta attenzione deve essere riservata anche ad un altro aspetto costitutivo della costruzione comunitaria: quello della garanzia di un sviluppo equilibrato dell’insieme dell’Unione, evitando situazioni monopolistiche ed anche eccessive concentrazioni produttive in singole aree. A titolo di esempio e come spunto di utile riflessione tutto da discutere, sia sul piano industriale che sindacale: mentre Francia e Germania hanno di fatto mantenuto in vita le proprie imprese automobilistiche, il nostro paese ha dovuto se non rinunciarci, almeno fonderle con un grande gruppo statunitense (evoluzione, quest’ultima, che conferma i legami della società italiana con quella statunitense, ma meritevole di notevoli approfondimenti sia sul piano interno dell’Ue, ma anche in merito al rapporto Usa-Ue). Ebbene, è possibile immaginare uno sviluppo che non cancelli le specificità nazionali, o di singole aree, mantenendo in accettabile equilibrio ragioni della concorrenza e aspirazioni alla continuità di potenzialità produttive?

Un altro aspetto, da non sottovalutare, è che i nostri maggiori interlocutori europei, quando decidono, come hanno fatto, di aumentare la spesa per istruzione e ricerca in un momento di crisi, si attendono di uscire con un quid di vantaggio rispetto agli altri nel momento della ripresa: ciò significa, realisticamente, che attorno a questi temi si giocano notevoli interessi nazionali, non abbastanza considerati nella loro rilevanza, e che andrebbero affrontati soprattutto con un maggior grado di integrazione, ma anche di responsabilizzazione interna. Appare evidente, fra l’altro, che privarsi di centri di ricerca e di imprese di primaria importanza depaupera le singole società di saperi, di opportunità per i giovani e persino di motivazioni a dotarsi di un adeguato livello di istruzione professionale ed universitaria.

Fra gli obiettivi del Partito democratico dovrebbe figurare inoltre un grande sforzo nazionale per la riduzione del debito pubblico (che di per sé riduce di alcuni punti percentuali le potenzialità di ripresa), da attuarsi soprattutto mediante una puntuale, metodica razionalizzazione, efficientizzazione e moralizzazione della macchina tanto statale che produttiva, che dei servizi in generale, motivando e responsabilizzando l’intero corpo sociale, piuttosto che con semplice dirigismo contabile, spesso incline a complicare procedure di spesa e apparati di controllo.

In tema di “patto con gli europei”, per un verso va sollecitata una normativa europea, ancor oggi insussistente, al fine del perseguimento della criminalità organizzata, avvalendosi delle esperienze acquisite dalla magistratura e dalla legislazione italiana nella lotta contro la mafia; per un altro verso, l’Italia dovrebbe almeno recepire, cosa che non ha ancora fatto, le normative europee per la confisca all’estero dei beni esportati dalle organizzazioni criminali, come ha recentemente denunciato la commissaria Reding; per un altro ancora, sarebbe auspicabile consentire ai partner una ricognizione profonda del caso italiano e l’individuazione di strumenti, anche di tipo sovranazionale, per la repressione di tali fenomeni, che coinvolgono problematiche non di pura valenza giudiziaria, ma anche di intelligence da parte dei servizi di sicurezza di singoli paesi (nulla di male ci sarebbe ad istituire una figura di controllore europeo dei fenomeni mafiosi). Nel “patto con gli europei”, che consentirebbe del resto un incremento degli investimenti nel nostro paese, andranno anche previsti impegni come quelli per il pagamento in tempo debito delle fatture, per il contenimento dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale, per il controllo sull’esportazione di capitali, etc.

Altre tematiche, dalla sanità alla previdenza sociale, al sistema pensionistico, alla formazione vanno affrontate con una chiara visione europea.

Caro Segretario,

nel concludere questo nostro appello, sottolineiamo che l’attuale carenza di iniziative di respiro europeo da parte dei leader dei maggiori paesi dell’Ue esige un sovrappiù di impegno da parte del nostro e dal Pd in particolare, i quale, sia pure sul piano simbolico, che non è mai trascurabile, farebbe bene a inserire nelle proprie insegne, al momento piattamente nazionali, almeno un accenno grafico ai colori dell’Unione europea.

Quanto ad Altiero Spinelli, recenti sviluppi all’interno del Parlamento europeo registrano lo sviluppo di aggregazioni e proposte politiche direttamente ispirate al suo messaggio e al suo esempio. Sarebbe a dir poco auspicabile che il Pd, invece di restare scavalcato, raccogliesse con grande risalto l’eredità dell’antico confinato antifascista di Ventotene: diventerebbe in questo modo il primo grande partito italiano, e presumibilmente dell’Unione, a fare dell’obiettivo della federazione democratica europea il suo fattore fondativo, profondamente innovatore ed epocale al tempo stesso, per il suo radicamento di lungo periodo nella storia dei movimenti popolari e per la prospettiva offerta di un miglioramento decisivo della civiltà umana.

Restiamo del resto profondamente convinti che il progetto dell’Italia europea sarà in grado di fronteggiare i pericoli di separatismo e di frantumazione del tessuto connettivo interno del paese provocati dagli egoistici, torbidi e ciecamente introflessi conflitti di interessi particolaristici e di potere personale che hanno caratterizzato questi anni da dimenticare.


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