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L’I(n)chino

L’insistenza di Andrea Ichino con la quale difende la proposta contenuta in una interrogazione parlamentare’multipartisan’ (aumentare le tasse universitarie offrendo ai non abbienti prestiti d’onore per pagarle) merita una replica che si affianca a quelle di Roberto Ciccarelli (Il Manifesto) e di Francesca Coin (Blog “Rete 29 Aprile†per il Fatto Quotidiano). Sul Manifesto Ichino interviene nuovamente difendendo la proposta e sarcasticamente invitando a leggerla meglio.

Abbiamo letto tutti l’interrogazione parlamentare presentata in Senato, e tutti abbiamo colto i contenuti ivi descritti. Oggi Andrea Ichino presenta e puntualizza alcuni contenuti che nel testo erano rimasti sul vago, ma è chiaro che se si puntualizza un testo vago, non si può poi prendere cappello contro chi ha criticato la vaghezza: si sia più chiari e precisi e basta. Ad esempio Ichino si premura di puntualizzare che la proposta di pagare le tasse universitarie contraendo un debito da parte degli studenti meno abbienti, prevede la restituzione del debito «solo se e quando» il debitore avrà un reddito sufficiente a ripianare il debito in misura parziale o totale. Quel «solo se e quando» nell’interrogazione non c’è, e a voler essere pignoli non c’è neppure l’indicazione dell’indice di rivalutazione da applicare ai tetti di reddito indicati per la restituzione del debito (24.000 euro per la restituzione parziale e 30.000 euro per la resituzione totale); a volere essere iperpignoli non viene neppure indicato se si tratta di reddito lordo o netto. Insomma, se si propone qualcosa lo si fa con un progetto di legge, non buttando là che magari «si può fare» come fanno in Gran Bretagna. Un progetto di legge coinvolge il parlamento, apre un dibattito, solletica domande e provoca risposte; tirare la giacchetta della mamma Gelmini per suggerire che magari si può fare così o cosà è un modo molto poco ‘politico’ e molto codino di operare.

È un modo questo per dire che l’idea è buona e valida? No, è solo un modo per invitare gli Ichino a seguire le strade del confronto dialettico e a non restare vittime dell’esterofilia dilagante che ci vorrebbe tutti cittadini del Vermont o dell’Ohio invece che della Basilicata o della Toscana.

Ma bando alle ciancie: per venire al concreto, dirò adesso perché l’idea non solo è balzana ma anche inapplicabile in Italia.

Prima di tutto, pensare che i tagli del FFO decisi dal governo debbano essere scaricati sulla popolazione universitaria ha un fondo sottile di perfidia. Non è neppure, descritta come la mettono giù gli Ichino, egualitaria. I problemi sono essenzialmente due.

Il primo: l’enorme evasione fiscale che affligge il Paese, della quale gli Ichino sono senz’altro avvertiti. 120 Miliardi di euro all’anno che non arrivano nelle casse dello Stato (e si tratta di una stima) troncano qualsiasi discorso sul fatto che «i soldi non ci sono». Sbagliato, i soldi ci sono, solo che si trovano tutti da una sola parte. Tommaso Padoa Schioppa ebbe a dichiarare che quei soldi, se incassati, avrebbero cambiato il volto dell’Italia, mentre invece, in questa maniera, il tipo di economia italiano è un modello di macelleria sociale: taglio la spesa pubblica, istruzione compresa, perché spendo troppo ma soprattutto perché non riesco a creare un sistema fiscale equo e credibile e, soprattutto, rispettato.

A poco varrà basarsi su criteri reddituali drogati da un tale salasso (più del 10% del PIL nazionale) per decidere se uno studente è parte di una famiglia abbiente o meno abbiente. Sul fatto che sia iniquo che figli di professionisti o imprenditori evasori fiscali possano frequentare l’università a costo zero mentre il rampollo di due ricercatori universitari debba pagare tutta la retta sono certo che Ichino 1 e Ichino 2 saranno d’accordo, così come sarà d’accordo qualsiasi persona di buon senso.

Si tratta di un problema grosso come una casa, che si lega a una serie di svariati problemi accessori che l’accompagnano (scarsa etica pubblica, corruzione diffusa, familismo amorale ecc. ecc.) e che vanno risolti prima di dare completo credito al criterio del reddito dichiarato per dividere i poveri dai ricchi. Problemi che fanno sì che non si possa ragionare, come dice Ichino 2, all’americana: si mettono da parte i soldi per il college del figlio sin da quando è piccolo. In Italia si è sempre ragionato in altra maniera, considerando l’istruzione di base, media e superiore, compresa l’alta formazione, come un diritto della persona e del cittadino che «anche se privo di mezzi» ha il diritto di raggiungere i più alti gradi negli studi, e non come un regalo da fare se arrivi ai 19 anni (e coi tassi di delinquenza in alcune zone di New York, questo può già essere un bel successo, quasi un dottorato). Quindi invito gli Ichino a riflettere sull’assurdità di proporre ricette buone per luoghi dove se non paghi le imposte sei un delinquente pubblico riconosciuto ed esecrato, in luoghi dove gli evasori sono blanditi come persone che «ce l’hanno fatta» (il sonnellino italiano vs. the American Dream). Del resto, questo non significa ammettere che la ricetta britannica o americana sia una panacea neppure nel luogo di provenienza: basta considerare le critiche che sono sorte contro l’indebitamento studentesco crescente in Paesi che peraltro hanno l’istituto giuridico della bancarotta personale, che da noi invece non esiste.

Il secondo problema è meno connotato geograficamente ma dovrebbe avere valenza universale: si parla di tasse universitarie senza considerare il valore che lo studente rappresenta per l’istituzione universitaria e per il suo Paese. Lo studente è una persona, non una famiglia. Il suo valore e le sue capacità dovrebbero essere valutate indipendentemente dal reddito del gruppo familiare di provenienza: magari i tanti bamboccioni che circolano sono tali proprio perché nessuno li considera come svincolati dal nucleo familiare fino a che non si sposano. Lo studente single, da noi, non esiste, ma molti di loro si considerano tali, agiscono come tali, provano un lieve senso di fastidio a chiedere soldi ai genitori per fare ciò che li prepara al futuro, vorrebbero farcela da soli ma tutto li riconduce sempre a essere parte della famiglia di provenienza, una e indivisibile. L’autonomia personale non viene aiutata, e basta parlare con gli studenti per capire che molti di loro sarebbero i primi a essere felici per la fine del familismo istituzionale.

Questo lo si potrebbe fare, da subito, con una piccola regola. In un contesto in cui l’istruzione, di ogni ordine e grado, deve rappresentare un costo certo e prevedibile per la comunità, da mettere in conto non come una spesa ma come un investimento per il futuro, gli studenti migliori, ricchi e poveri, non dovrebbero pagare nulla. Non si parla di pagare le tasse e poi restituirle se hai buoni risultati: si parla di non pagarle se i tuoi risultati dell’anno precedente sono buoni, oppure pagarle se peggiorano. Il fatto di essere bravo e meritevole non dipende dal ceto di provenienza, su questo spero saremo tutti d’accordo visto che facciamo tutti lo stesso lavoro. Avere papà ordinario serve sicuramente ai concorsi – e abbiamo insigni rettori che possono testimoniarlo con la loro stessa esistenza e quella della folta prole in cattedra – ma serve molto meno se durante un esame non sai un tubo e collezioni 18, 22, 24 come se fossero grandi traguardi. Misura rivoluzionaria?

In Toscana, nel secolo scorso, anno di grazia 1984, esisteva una norma che esentava dal pagamento delle tasse universitarie lo studente che, dopo il primo anno (in quello pagavano tutti le loro 150.000 lire annue) esentava dal pagamento delle tasse gli studenti in corso con una media pari a 28/30. Se ricordo bene non eravamo in pochi a goderne i benefici. Gli altri pagavano tasse moderate. I parametri reddituali erano valutati solo se chiedevi un posto letto. Ancora oggi, a distanza di anni, non riesco a pensare un motivo per cassare tale soluzione come incivile, non egualitaria, impraticabile.

Certo, con il governo che taglia di preferenza l’Università e la scuola come costi insopportabili, come mangiatoie di fannulloni e come pericolosi e incomprensibili covi di dissidenti, è una misura inapplicabile. È in un contesto di incomprensibile mollezza e acquiescenza per un’operazione di dimagrimento del settore dell’istruzione e della ricerca che possono nascere le proposte fatte dagli Ichino: più tasse per tutti, ai poveri anche un bel prestito (così si abituano). Chiamarlo «d’onore» non vambia molto la specie della cosa, sempre debito è.

Esiste invece un’altra strada, quello di rivendicare con orgoglio il fatto che l’Università e la scuola sono un costo sociale insopprimibile e fondamentale; strutture nelle quali i docenti devono essere motivati, sottoposti a valutazione e a rigidi controlli di qualità, ma alle quali gli studenti devono poter accedere pagando un costo ragionevole e venendo esentati completamente se danno prova di essere un investimento che vale: «capaci e meritevoli».

Smettere di fare politica e accettare il principio che deve essere lo studente a pagare per un servizio che lo stato sta dismettendo con decisione, è una strada ipocrita, insensata e, guardando a ciò che al contrario succede nel resto dell’Unione europea, soprattutto viziata dal virus dell’esterofilia italica acritica.
Non è far politica, è accettare l’esistente come ineluttabile e rifiutarsi di tentare di cambiarlo.
Piero S. Graglia

P.S.: resta un dubbio nel leggere i documenti di questa querelle: il senatore PD Ignazio Marino, che figura come firmatario dell’interrogazione nella versione pubblicata sul sito di Pietro Ichino, ha poi firmato veramente questa interrogazione? Il dubbio sorge spontaneo, perché nella versione ufficiale del Senato il suo nome non c’è…


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