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Israele nell’Unione europea? Facciamo il punto

Piero Graglia e Ivan Scalfarotto, 25 aprileritagliataPeriodicamente il tema dell’ingresso di Israele nell’Unione europea rispunta come un fiume carsico animando il dibattito politico e diventando tema di discussione più o meno svogliata. Bene se questo significa anche riflettere sulla natura e sui caratteri della stessa Unione europea, male se si tratta soltanto dell’utilizzo strumentale di un tema che ha un certo appeal storico-politico, senza andare al fondo dei problemi che esso solleva.

Prima di tutto va ricordato che il tema di per sé non è nuovo: esso è stato portato avanti in maniera provocatoria dal partito radicale transnazionale all’inizio degli anni Ottanta con una chiara valenza politica: l’ingresso di Eretz Israel nell’UE avrebbe occidentalizzato definitivamente Israele e coinvolto l’Europa nella necessaria soluzione del problema palistenese. Una formula semplicistica e sommaria che non tiene conto della natura stessa non solo dello stato di Israele, ma anche dell’Unione europea.

L’Unione, da Maastricht in poi, non può più essere definita semplicemente una forma di cooperazione economica e di integrazione settoriale dei mercati: essa è diventata una fonte del diritto interno con il ruolo centrale assegnato alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, le cui pronunce sono vincolanti per gli stati membri e in grado di influenzare il diritto interno nazionale. Inoltre non si dimentichi il fatto che l’Unione definisce anche diritti civili e politici e l’eventuale ingresso nell’UE di Israele, stato il cui parlamento si configura come una assemblea costituente permanente ma è privo di una costituzione scritta, comporterebbe l’accettazione da parte di Israele delle libertà (di circolazione di merci, persone, capitali e servizi) già oggi garantite a tutti gli stati dell’Unione. Dubito che tale prospettiva sarebbe allettante per Israele.

C’è poi la debole motivazione economica, già soddisfatta con la partecipazione di Israele al partenariato euro-mediterraneo, al pari di Algeria, Marocco, Egitto, e che si configura come un vero e proprio accordo di associazione. Come motivare l’eventuale rifiuto successivo alle richieste di ingresso da parte dei paesi della mezzaluna fertile che, pur con tutta la buona volontà, fa geograficamente parte dell’Africa e non dell’Europa?

L’elenco dei problemi non si ferma alle questioni geografico-economiche, ma coinvolge anche le diverse volontà politiche: né lo stato di Israele né i diversi portavoce dell’Unione che si sono succeduti nel tempo si sono mai espressi a favore della prospettiva dell’ingresso di Israele nell’Unione, lasciando il tema ai ghiribizzi dialettici del provocatore di turno, fosse esso il partito radicale transnazionale o il fantasioso presidente del Consiglio italiano.

Resta da capire perché Berlusconi abbia lanciato la sua pallina in campo con tanta leggera temerarietà. Di certo uno dei motivi è l’ignoranza del personaggio rispetto alla natura stessa dell’Unione europea: molti si ricorderanno, durante la campagna elettorale per le europee, le stupidaggini che sono state pronunciate sulla «enorme massa di lacci e lacciuoli» che l’Unione europea imporrebbe alle aziende europee, italiane in particolare. Una performance quasi teatrale che viene periodicamente riproposta con un certo successo ma che ha un solo grosso limite: è una balla. Da quando la Commissione Delors ha proceduto alla rimozione delle tante barriere improprie alla libera circolazione delle merci, dei servizi e delle persone nello spazio delle CE, il sistema è ormai a regime e assorbito automaticamente nella legislazione italiana con l’approvazione, ogni anno, di una legge quadro europea che il parlamento italiano approva con dibattito inesistente. Un sistema che ha portato, se possibile, alla semplificazione del quadro normativo nazionale sulle norme di fabbricazione e di produzione, non certo a una sua complicazione.

Un altro motivo può essere l’inesausto richiamo ai temi delle radici giudaico-cristiane dell’Unione che Berlusconi accoglie principalmente perché il tema desta un certo interesse oltre Tevere (e solo lì, oltre che in Polonia). Chi potrebbe negare tali radici con l’ingresso di uno stato fondato sulla legge tradizionale ebraica?

Tuttavia la provocazione funziona, se se ne parla e se si è costretti a confutare gli inespressi motivi della proposta. Funziona perché l’UE è un oggetto politico non identificato (UPO: unidentified political object); funziona perché la stessa natura di attore globale dell’UE sulla scena politica internazionale è in corso di faticosa definizione, con ritardi imputabili in gran parte proprio alle culture (o non-culture) politiche che appoggiano e si riconoscono nel presidente del Consiglio italiano, in Italia e all’estero; funziona, infine, perché la nozione di cittadinanza dell’Unione europea è ancora oggi un valore debole, malamente compreso e scarsamente declinato e non implica un automatico richiamo a valori e a diritti che lo stato di Israele certo riconosce e certo in parte anche difende, ma nel quale non può proprio riconoscersi pienamente.


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