Ago
21
Il tempo del ricordo, il ricordo del tempo
Un mio caro amico, ieri sera, mi rimproverava blandamente perché me l’ero presa con Cossiga e con la sua figura nel momento della sua morte. Non è elegante, mi diceva, prendersela coi morti, sia perché non si possono difendere sia perché, in ogni caso, ciò che hanno compiuto è ormai stato già giudicato sul momento e ancora più verrà giudicato successivamente dagli storici. A che pro quindi continuare a ricordare i limiti di una persona e del suo operato prima che la storia abbia posto il sigillo del “vero” sulle diverse vicende?
E’ un caro amico, forse l’unico vero che ho, che conosco da tanti anni, quindi le sue osservazioni mi hanno imbarazzato perché non le potevo liquidare con un’alzata di spalle rifacendomi a vecchi slogan e a vecchi stereotipi. Ci ho dovuto pensare per rispondere; e pensare aiuta, sempre, anche se lo si fa con riferimento a cose che si sentono particolarmente.
La storia, gli ho detto, non è un tribunale, e la presunzione di innocenza in quel caso non funziona, perché tanto ormai il reo è morto, quindi il reato, se c’è stato, si è estinto con il suo autore. La storia vuole offrire alle persone una trama di memoria generale da mettere a confronto con il proprio vissuto, scendendo anche nel particolare, certo, ma senza pretendere di dare giudizi pro o contro qualcuno in maniera netta. Dal momento che il mio amico è un pubblicitario, gli ho dovuto spiegare il mio punto di vista con un esempio macroscopico. Hitler, gli ho detto, è stato oggetto di storia già mentre era ancora in vita. Storia agiografica, certamente, ma neppure tanto. Nella convinzione generale della buona borghesia tedesca non ebrea, Hitler aveva portato ordine e progresso e lavoro, aveva allontanato la rivoluzione sociale, aveva sottomesso le masse popolari al mito della patria e della razza. Aveva dato un senso alla Gleichberechtigung (la parità dei diritti) con le altre nazioni europee, riportando la Germania a un posto di prestigio. Il consenso verso di lui era reale e massiccio, tolti quelle poche migliaia di dissidenti e gli ebrei che venivano emarginati dalla società tedesca, allontanati con la forza, sovente uccisi ma non ancora con i metodi della soluzione finale. Quando nel 1935 viene fatto il plebiscito nella regione della Saar per decidere se essa doveva tornare a essere tedesca, diventare francese o restare sotto la tutela della Società delle Nazioni come era stato fino a quel momento, il 90% dell’elettorato scelse Hitler. Un elettorato in gran parte fatto di operai e minatori, in una regione particolarmente industrializzata e storicamente una delle roccaforti ‘rosse’. Un evento che dà da pensare quando si parla del ‘consenso’ al nazismo. Lo storico deve essere influenzato dal giudizio morale per ciò che ha fatto Hitler? Certamente sì, è una questione di sensibilità umana, nello stesso tempo però deve tenere conto dello scenario interno tedesco e dei sentimenti che attraversavano l’opinione pubblica dal 1933 al 1945 per rendere compiutamente il servizio alla ‘verità ’.
Ecco, continuavo, con Cossiga sta succedendo lo stesso, ma in direzione esattamente opposta: si usa solo il registro della retorica di stato, della classe politica che si autocelebra, e si dimentica di ricordare l’azione che Cossiga, con il suo collega Andreotti, ha fatto sia come ministro dell’interno, sia come presidente del Consiglio e infine come presidente, per rendere oscure e ancora meno intelleggibili momenti e vicende della storia italiana. Vicende che non sono costate solo proteste, cortei, manganellate, ma morti, stragi, offese diffuse e continue al tessuto sociale e civile del Paese.
Questo io contesto della celebrazione di Cossiga: non volersi neppure per un attimo confrontare c0n ciò che Cossiga ha fatto durante il suo operato di uomo politico, stendendo il velo mieloso del ricordo dolciastro e buono in valore assoluto, come si faceva con i capi sovietici stesi nel catafalco in un tripudio di bandiere rosse e mazzolini di fiori. Gli inglesi chiamano questo atteggiamento “brownlicking”, che potrebbe essere reso con qualche approssimazione con “leccamerdismo”, e brown-licker, leccamerda, sono quelli che se ne rendono responsabili. Un’azione che non sempre è consapevole, ma che nel momento in cui diventa l’atteggiamento da tenere in generale, addormenta ogni capacità critica.
A questo giochetto non si è sottratto nessuno, neppure esponenti dei partiti che non stanno al governo (tecnicamente, l’opposizione; tale solo di nome).
Il mio amico a questo punto ha interloquito dicendomi: “allora bisogna attendere lo storico che scopra i campi di sterminio, così come per Hitler”. No, i campi di sterminio li conosciamo già , conosciamo a memoria certe espressioni e certi giri di parole per mascherare i fatti; sappiamo grazie a giudici che non hanno voluto leccare ciò che non ritenevano cioccolata, ciò che è successo a causa di alcune cricche di persone; abbiamo anche avuto coraggiosi esponenti dell’opposizione dell’epoca che hanno dato un contributo importante, un nome per tutti: Tina Anselmi. Quindi chi sceglie il conformismo o, peggio, sceglie di dire che gli scheletri nell’armadio ce l’hanno tutti e non solo la vecchia Dc, compie un’atto doppiamente odioso: prima perché porta il cervello all’ammasso, secondo perché accetta la vulgata che, di norma, precede sempre la ricostruzione storica obiettiva ma, purtroppo, talvolta la sostituisce completamente.
A quel punto gli ho fatto l’esempio dell’inchiesta di Remondino nell’agosto 1989, su P2 e Cia e sui legami destabilizzanti tra servizi americani e politica italiana. Un coraggioso servizio che costò il posto al direttore del Tg1 Nuccio Fava, sostituito in gran fretta da … Bruno Vespa (sì, lui, il maggiordomo del potere), e che provocò una levata di scudi da parte nientemeno che del presidente del Consiglio Andreotti, che in Parlamento si scaglio con veemente cattiveria contro i giornalisti che non verificavano le fonti. Gli italiani non sanno, forse non hanno mai saputo, che le fonti di Remondino non erano solo Brenneke, l’agente Cia che aveva confidato i suoi segreti, ma gli atti processuali che avevano visto Brenneke in giudizio contro la sua agenzia (il governo degli Stati Uniti) e lo aveva visto vincere: ciò che aveva detto era vero, la giuria popolare lo ripeté per ben sessanta volte.
Ma oggi quell’inchiesta, vilipesa anche dal presidente Cossiga, nessuno la ricorda più, e la vulgata sta proponendo altro. Immagini, gli ho detto, cosa succederà quando morirà Andreotti? Che monumento di grazia e saggezza gli verrà elevato?
Vedi, gli ho detto, tutti pensano che la storia sia un qualcosa che svolazza e colpisce casualmente riportando ordine nelle cose a distanza di tempo, ma non è così, ciò che si sta facendo in Italia oggi è peggio di ciò che è stato fatto dopo il fascismo (e non è detto che le due operazioni non siano in qualche modo collegate): proporre un’idea di paese talmente artificiosa e artefatta, talmente zuccherosa che scompare la memoria del singolo. Se il singolo non ritrova nella memoria condivisa i suoi ricordi, vive un’alienazione, viene spinto a modificare il suo ricordo. Questo sta succedendo, e visto che la storia non la scrivono gli angeli ma gli uomini, ed è pensabile che la storia italiana la scriveranno ancora per parecchio tempo gli italiani stessi, è bene tutelare la molteplicità dei ricordi, e non cedere alla tentazione di uniformare tutto al ricordo ufficiale, voluto da chi detiene pro tempore il potere e non vuole che sopravvivano memorie alternative. Il dovere del ricordo è la prima cosa da tutelare oggi, così come i primi socialisti, alla fine dell’Ottocento, sentivano istintivo il bisogno di racontare le loro lotte perché non venissero lasciati alla ricostruzione dei mattinali di polizia.
Per questo ho attaccato la memoria di un morto. Per questo continuerò a cercare amici che sappiano condividere con me qualcosa che sia più di una semplice birra: il ricordo dei tempi che sono andati, la nostra versione dei fatti, il tempo lungo del ricordo.