Apr
25
Il dialogo con Mario Pirani su università e ricerca
Lunedì scorso Mario Pirani pubblicava una sua nota su Repubblica nella sua rubrica fissa, “Linea di confine”. In essa parlava della riforma Gelmini e avanzava alcune osservazioni positive riguardo alla figura del Ricercatore a tempo determinato previsto dalla riforma (anche se non si tratta di una novità : fino a oggi lo chiamiamo assegnista di ricerca). Gli rispondevo con una mail privata facendo alcune osservazioni, ma non richiedendo la pubblicazione: in altre parole, parlavo solo a lui. Se avessi voluto fare qualcosa di pubblicabile come lettera, avrei usato toni molto più duri. Oggi scopro che la lettera, tahgliata, è stata pubblicata.
Per opportuna conoscenza pubblico l’intera lettera, poiché la versione tagliata non fa capire nulla.
Caro Pirani,
ho letto la tua Linea di confine di oggi e sento di dover avanzare alcune osservazioni che forse ti torneranno utili.
Premetto che faccio parte di quella generazione che ha fatto dottorato, postdottorato, lunga gavetta di assistentato volontario e, alla fine, ho vinto un concorso da ricercatore ‘libero’, trovandomi al posto giusto al momento giusto. Detto questo, che spero sgombri il campo rispetto al dubbio di possibili simpatie per il sistema vigente, veniamo a noi.
Il DDL in discussione al Senato è, per giudizio unanime, il primo tentativo di riforma organica del sistema, ma presenta dei limiti tali da offuscare i pochi possibili vantaggi che tu segnali. Prendiamo ad esempio la figura del ricercatore a tempo determinato, assunto con contratto di tre anni rinnovabile una sola volta per altri tre, e che alla fine del periodo di ‘precariato’ dovrebbe diventare professore associato. Si tratta di una figura riconducibile per molti versi alla “tenure track” anglosassone, che prepara il giovane ricercatore alla futura carriera come “professor”, ma nel caso italiano vi sono alcune
differenze significative.
– Prima di tutto non viene previsto lo stanziamento in bilancio delle risorse per trasformare il ricercatore a tempo determinato in professore;
– secondariamente, i tagli imposti nel 2008 con la L. 133 e il “combinato disposto” rappresentato dalle norme sul turnover nella pubblica amministrazione rendono quanto mai problematico anche solo pensare a una promozione dei ricercatori a tempo determinato a professori associati. Tutto questo, senza contare che i 24.000 ricercatori assunti nel corso del tempo e attualmente in servizio dovranno pur essere trasformati in qualcosa di diverso, ancora non ben definito.
Ampliamo un attimo il discorso e andiamo a toccare anche l’aspetto della governance degli Atenei. Il DDL, dopo che negli ultimi mesi si è dato il completo controllo dei concorsi agli ordinari, adesso stabilisce anche che la governance è tutta, ripeto tutta, nelle mani dei professori ordinari. CDA e Senato accademico saranno il loro territorio di caccia preferito, mentre sempre a loro sarà riservata la direzione dei Dipartimenti (niente di diverso rispetto al passato) e la direzione di corsi di laurea e di studio. Le facoltà scompaiono – magari rientreranno dalla finestra – ma questo vuol dire poco in un panorama che vede i professori ordinari unici regolatori del sistema, insieme al Ministero (non solo dell’Università , ma anche dell’Economia).
Riesci a intravedere lo scenario? Avremo una ristretta fascia di professori ordinari in procinto di andare in pensione, ma con molti cinquantenni famelici (e anche meno preparati rispetto ai vecchi sessantenni e settantenni) contornata da una pletora di professori associati e ricercatori a tempo indeterminato che non potranno essere promossi per mancanza di risorse. Più in basso, un esercito di riserva di giovani ricercatori a tempo determinato che verranno assunti per sei anni con le poche risorse disponibili, ottenendo così un duplice effetto: crearsi un comodo e malleabile strumento per fare didattica (non certo ricerca!) e farsi belli all’esterno mostrando che si assumono giovani ricercatori.
Inoltre non viene previsto nessun meccanismo premiale degno di questo nome; in altre parole, non si lega la scelta delle persone reclutate con il sistema del 3+3 a una effettiva erogazione dei successivi contributi di ricerca e tanto meno a una auspicabile responsabilità soggettiva (anche patrimoniale): se assumi una capra, ci rimette il tuo dipartimento e ci rimetti pure te prof. ordinario maneggione. Invece no: se assumi una capra rischi solo che – forse – il 7% dei finanziamenti del tuo ateneo venga destinato ad altri, ma il tuo dipartimento sentirà l’effetto solo blandamente. Va da sé che se tutti
assumono capre il taglio si sente ed è effettivo, ma se uno o due fanno i furbi tutto finisce nella statistica generale e nessuno se ne accorge. La valutazione, in poche parole, va fatta sui dipartimenti, non sugli Atenei, ma pare che proprio nessuno la voglia, forse perché professori ordinari che pubblicano oggi sono più rari del panda a pois.
Non vedo nulla di positivo in tutto questo e vorrei che ci si svegliasse dal sonno della ragione per denunciare finalmente il progetto governativo che anche alcuni deputati dell’opposizione considerano in fin dei conti accettabile. Noi ricercatori siamo molto arrabbiati e, al di fuoi di ogni protesta corporativa, vediamo l’inutilità di ciò che abbiamo fatto fino a oggi: reggere il peso di un terzo della didattica universitaria senza essere tenuti a farlo
(dpr. 382/80), pensando che comunque alla fine vincesse il buon senso, non la casta.
Spero che quanto ti ho scritto ti possa servire per ritornare sull’argomento con altri elementi.
Un cordiale saluto
Piero Graglia