Feb

17

E’ l’ora dei ricercatori?

Periodicamente, con un tono tra il demagogico e il finis Austriae, si parla in Italia del tema dei ricercatori universitari e della ricerca in genere. I ricercatori, quelli assunti nell’Università, sono circa 25.000, percepiscono uno stipendio che parte dai 1200 euro/mese e arriva, dopo dieci anni di anzianità, a circa 2200 euro netti al mese. Si tratta di una figura introdotta con la riforma del 1980 (dpr 382/80) che prevedeva, per loro, solo compiti di didattica integrativa (seminari) e assistenza agli studenti (tesi, esami ecc.) ma non la cosiddetta didattica principale, i corsi propriamente detti. Quella è riservata ai professori. Poi ci sono altre figure, ricercatori precari nati dopo la riforma del 1980, che sono in attesa di un concorso: assegnisti di ricerca, dottorandi e dottori di ricerca, cultori della materia. Una moltitudine di persone che hanno di fronte a loro, spesso, solo la via dell’emigrazione in qualche realtà universitaria all’estero dato che i canali di accesso in Italia sono ingolfati e macchinosi.

Di loro parlerò tra poco, ma va chiarito che il destino dei ricercatori precari è strettamente correlato con il futuro dei ricercatori a tempo indeterminato, i ricercatori regolarmente assunti. Questi ultimi, dal 1980 in poi, si sono visti assegnare una miriade di incarichi di didattica principale, non previsti originariamente tra i compiti istituzionali del ricercatore. Spesso l’hanno fatto perché hanno risposto a un invito dei loro docenti di riferimento, ordinari e associati; spesso l’hanno fatto per senso del dovere e dedizione, spesso, soprattutto nel passato più remoto, l’hanno fatto perché i corsi erano comunque retribuiti in aggiunta alla normale retribuzione. In molti casi tutti e tre i fattori erano presenti. Peraltro si tratta di didattica che è generalmente molto ben valutata dagli studenti ma che, in Italia, non viene per nulla considerata per la valutazione dei sistema universitario nel suo complesso.

Oggi le cose sono un poco cambiate: intendo dire che i ricercatori continuano a svolgere compiti di didattica principale – nell’ateneo milanese (Statale) si tratta di un 38% del totale dei corsi – ma non vengono più retribuiti per la totalità del corso ma solo per una parte, oppure per nulla; soprattutto non hanno di fronte alcuna prospettiva di futuro professionale, dal momento che di concorsi e di turn over dei professori pensionandi proprio non se ne parla: la parola d’ordine, dal 2008 a oggi è tagliare, tagliare, tagliare. Ovviamente in molti casi il taglio è doveroso e risponde a criteri di efficienza e di razionalizzazione della spesa, ma in molti altri casi si nega un futuro professionale a persone che hanno prestato la loro opera coscienti che comunque si trattava di un addestramento doveroso in vista di un avanzamento che invece, oggi, viene semplicemente negato.

E’ a questo punto che entra in gioco il progetto di riforma dell’Università disegnato nel DDL in discussione in questi giorni al Senato (DDL Gelmini). Tale riforma complessiva del sistema universitario nazionale si concentra sulla governance degli Atenei italiani sdegnando il ruolo fondamentale svolto dai ricercatori. Nei centri decisonali previsti dal DDL (Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione) siederanno solo professori ordinari o delegati esterni, mentre le facoltà verranno gestite da un ‘Consiglio’ di facoltà composto solo dai direttori di dipartimento (ancora una volta professori ordinari) e da un preside da loro eletto.

E i compiti di didattica e ricerca? Verranno svolti dai professori ordinari, associati e dai ricercatori di ruolo nonché da un esercito di riserva di lavoratori intellettuali composto da ricercatori a tempo determinato, assunti con contratto di tre anni rinnovabile per altri tre anni  una sola volta, per i quali sono previsti compiti didattici IDENTICI a quelli dei proff. ordinari e associati. Nulla cambia invece per lo status dei ricercatori già in organico, che si avviano quietamente all’esaurimento. La confusione a questo punto è massima: nel 1980 si pensava ai ricercatori come persone dedite solo alla ricerca e solo occasionalmente alla didattica, oggi il rapporto è esattamente ribaltato. I nuovi ricercatori verranno assunti per coprire soprattutto i buchi della didattica lasciati dalla carenza di professori ordinari, associati e ricercatori di ruolo, ma la retorica farà dire che l’Italia assume tanti ricercatori, saranno sicuramente migliaia; nessuno però dirà che si tratta di persone che di ricerca purtroppo ne faranno proprio poca, oberati da compiti didattici asfissianti e demotivati dalla precarietà.

Per questi motivi i ricercatori di ruolo dell’Università di Napoli hanno deciso di protestare (cfr. il file 13-02-pag) e, proseguendo un’agitazione che è partita nel giugno 2008, hanno deciso di astenersi dai compiti didattici, non previsti nel loro status giuridico-professionale (va ricordato che i docenti universitari non hanno un contratto ma i loro compiti sono stabiliti dalla legge). I corsi dell’Università di Napoli rischiano così di saltare e con lei tutta l’attività didattica. Le riforme all’italiana, sembrano dire i ricercatori partenopei, non vanno più bene: essere pagati il 30% in meno dei professori associati e il 55% in meno dei professori ordinari a parità di anzianità di ruolo, ma svolgere gli stessi identici compiti didattici rappresenta un’aberrazione che il governo non puà pretendere di perpetuare con la nuova riforma che punta alla precarizzazione della figura del ricercatore/docente.

La protesta di Napoli si diffonderà, è sperabile, ovunque. Chi scrive ha fatto una prima lezione in Piazza Duomo a Milano il 22 ottobre 2008, dando corpo a una protesta e a un disagio che oggi esplodono. Nei Consigli di Facoltà abbiamo discusso delle misure proposte nel 2008 e della riforma nel suo complesso; abbiamo minacciato astensioni dalla didattica, proposto studi, tabelle, appelli. Adesso basta. Se parlare di ricerca significa fare solo della vuota demagogia buona per i tabloid i ricercatori non ci devono stare. Adesso ci devono spiegare che senso ha il nostro fare formazione, ricerca e didattica; adesso devono spiegarci che prospettive danno al sistema universitario italiano e come pensano di tenerci legati alla tolda del Titanic che lentamente affonda. Adesso, dopo anni, devono prendersi le loro responsabilità e prendere atto che, senza i ricercatori, il sistema si blocca.


One Response to “E’ l’ora dei ricercatori?”

  1. Federico Gobbo Says:

    Bel post, scritto in tempi del tutto non sospetti.