Nov

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Due o tre cose che so sull’Europa e su Mario Monti

Nell’euforia pensosa di questi giorni, mentre si assiste alla lenta caduta e uscita di scena del cavaliere Silvio Berlusconi, ritorna alla mente un altro momento, ben più tragico, della storia italiana: la caduta e uscita di scena del cavalier Benito Mussolini. In quell’occasione a sostituirlo venne chiamato Pietro Badoglio, duca di Addis Abeba per aver conquistato l’Etiopia nel 1936 coi gas asfissianti, oggi abbiamo Mario Monti, salutato da più parti come il salvatore della patria per le sue credenziali europee.

Per carità, le due figure non sono minimamente accostabili per la caratura morale, ma una cosa li accomuna: così come Badoglio entrò in scena accompagnato dalla speranza di un superamento del fascismo, pur essendo stato egli uno che dal fascismo aveva ricevuto prebende e onori, così Mario Monti entra in scena dopo aver guardato silenziosamente, ma non in maniera critica, i governi di Silvio Berlusconi, anzi avendolo invitato nel 1993 a un “intelligente e sobrio liberalismo”.

Quali sono le credenziali di Mario Monti, per promettere un governo diverso – sensibilmente diverso – da quello di Silvio Berlusconi? In altre parole, basta avere nel portafoglio ideale una cambiale europea per rappresentare una diversità? Basta parlare di governo “tecnico” per segnare un cambiamento?

Prima di tutto bisogna intendersi su cosa significa “europeo”, e dire due parole su un retaggio che non può essere identificato, come si usa fare oggi, coi “mercati”.

L’Europa, intesa come Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1950) e poi come Comunità economica europea e Comunità europea per l’energia atomica (1957) non nasce in ossequio ai “mercati”. Nasce per pacificare le relazioni tra Francia e Germania, e poi per consolidare l’aumento di scambi commerciali che il Piano Marshall e l’Unione europea dei pagamenti avevano favorito nell’Europa post-seconda guerra mondiale. Essa nasce con il dichiarato obiettivo di migliorare il benessere delle popolazioni europee e per impedire nuovi conflitti in Europa.

Nessuno, ma proprio nessuno, parlava in quell’epoca di desideri (o volontà) dei mercati, di spread, di moneta unica. Si parlava invece, sin da subito, della dimensione politica dell’integrazione europea, da affiancare a quella economica e commerciale (anzi, secondo Luigi Einaudi, veniva prima la politica poi l’economia). Si poneva con forza la necessità di un’integrazione politica, della necessità di articolare e coordinare le diverse e distinte politiche estere. Nessuno poteva immaginare che dall’Europa “dei mercanti” del 1400 si sarebbe passati a celebrare l’Europa “dei banchieri” del 2002.

Questo passaggio di scopo, questo arretramento ideale, che porta a identificare nei “mercati” il referente obbligato delle decisioni dell’Unione europea, è un arretramento spaventoso, un impoverimento ideale che non deve essere accettato supinamente come se fosse scritto nel DNA del processo di integrazione.

L’Unione europea è infatti, prima di tutto, la strutturazione in istituzioni e strumenti partecipativi comuni di una dimensione politica e sociale continentale. Politica e sociale, ancora prima che economica. Questo è il suo DNA, non quello che surrettiziamente oggi porta a identificare nell’euro, nella moneta unica che è un mezzo per integrare maggiormente la dimensione economica, un fine assoluto, per il quale ogni sacrificio è accettabile.

Certo, l’euro per il suo valore simbolico e per il suo ruolo di collante integrativo rende accettabile ogni sacrificio, ma non per politiche economiche che non sono dettate dall’esistenza della moneta unica, bensì da interessati attori nazionali e internazionali che sono collocati fuori dal continente e non hanno mai fatto mistero di quanto fosse disturbante e detestabile l’esistenza stessa del processo di integrazione europeo (e quanto fosse odiosa l’esistenza dello stesso euro).

L’Unione europea è cresciuta sulla coscienza di una “diversità” europea rispetto a modelli esterni a essa: ampia considerazione per la tutela dei diritti dei lavoratori, sistemi di welfare integrati e funzionanti finanziati con la spesa pubblica, ammortizzatori sociali, sistemi di previdenza diffusi e obbligatori, servizi pubblici con costi ragionevoli (scuola, sanità, alta formazione). Questa particolarità rende costoso il mantenimento della concorrenzialità sui mercati internazionali di prodotti che nascono in un territorio dove il costo del lavoro è elevato. Ma tutto è relativo: il costo del lavoro è elevato in Europa perché altrove esso è tenuto più basso comprimendo e limitando la previdenza e i diritti dei lavoratori, abbattendo i sistemi di tutela e gli ammortizzatori sociali, limitando i salari, rendendo la spesa pubblica per il sociale una voce pressoché inesistente. E guai a chi si azzarda a proporre ricette “europee”. L’esempio di Obama, tacciato nientemeno di “socialismo” perché timidamente ha proposto un larvato sistema di integrazione della spesa sanitaria a spese del bilancio federale, vale ben più di un lungo discorso.

Oggi, nel mezzo di una crisi innescata dai mercati e dalle errate valutazioni delle agenzie di rating, che hanno speculato sulla supposta solidità di castelli di neve, ci viene imposto un taglio generalizzato di ciò che, nella dimensione europea, garantisce la sostenibilità di un modello politico e sociale: la solidarietà, la partecipazione delle amministrazioni ai servizi essenziali e fondamentali; si impone un taglio del “debito” dicendo che si tratta di un debito al quale “tutti” hanno contribuito e per il quale “tutti” devono oggi pagare.

Il liberismo, la deregulation dei servizi pubblici, il dominio ideologico del mercato è il seppellimento delle idealità “sociali” dell’integrazione europea, la morte della sua idealità politica.

Sappiamo che Mario Monti è stato commissario alla concorrenza e al mercato interno; quindi ha una sensibilità accentuata per quanto riguarda l’integrazione dei servizi a livello europeo, dovrebbe essere un difensore di un modello che all’estero – e per estero si intende soprattutto il “dio mercato” – è visto con fastidio e diffidenza. Sappiamo anche che ha dato il suo appoggio all’attività del gruppo Spinelli. Non l’abbiamo mai sentito però esprimersi con chiarezza su quello che è il nodo fondamentale, tale da condizionare il futuro dell’esistenza della costruzione europea: la moneta unica presuppone e richiede un governo europeo dell’economia, un sistema che superi e si imponga sui diversi interessi dei governi nazionali ma risponda davanti a un parlamento europeo liberamente eletto. La Banca centrale, organo tecnico indipendente – come anche la vicenda di Bini Smaghi dimostra – non può trasformarsi in governo politico alle dipendenze del duumvirato “Merkozy”, ma deve rispondere pienamente a una struttura politica rappresentativa che il governo italiano dovrebbe attivarsi immediatamente per proporre e progettare e sostenere.

I mercati sono stupidi: come ogni economista sa bene essi sono dominati dagli “animal spirits”, sono il regno della speculazione e della idiozia ottusa, sono come animalini che seguono la ciotola del cibo e, se essa finisce in un crepaccio, gli vanno dietro. Non si può governare, né l’Italia né l’Unione, pensando che siano i mercati a dettare la linea di condotta. Mario Monti e il suo governo – qualora nasca – dovranno fare riforme che colpiscano duramente le posizioni di privilegio (in primo luogo la politica) e rendano più efficiente la macchina pubblica, ma che non portino ulteriori colpi allo stato sociale; l’Europa pure, se vuole sopravvivere a questa tempesta, deve riacquistare l’orgoglio di un modello che non emargina e che non riduce in povertà le classi più deboli, e deve imparare a dire “io sono il mercato, io e il mezzo miliardo di cittadini che vivono nell’Unione”. Essere un modello da imitare, non un pericoloso esempio da sopprimere.

Ma per fare questo, occorre una precisa volontà di difendere ciò che di buono è stato fatto negli ultimi sessanta anni, senza cedere al richiamo del liberismo sfrenato, della macelleria sociale, del “liberalismo intelligente e sobrio”.


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