Mag

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La corda si spezza

Adesso si levano alti gli strilli di quelli che dicono che ci sono dei violenti che hanno interesse a fare casino; adesso si trovano a decine, pronti ad assicurare che qualcuno – gli studenti, ovviamente – hanno esagerato. Pochi invece sprecano qualche parola sul comportamento della polizia, che se pure ha esagerato deve comunque essere sempre capita.
La notizia degli scontri al cosiddetto G8 dell’Università non aiuta però a focalizzare il problema vero, reale dell’università italiana: un sistema al collasso. Ma non a causa della sua natura di sistema al servizio della classe borghese per la formazione di un esercito di disoccupati, come concepisce, in maniera marxisticamente rozza e ingenua, il ribellismo inconcludente che cerca lo scontro con la polizia, bensì perché si tratta di un sistema ancora governato con le norme dei primi anni del XX secolo.
Un sistema dove solo gli ordinari tengono le fila della governance degli Atenei e delle Facoltà; un sistema dove la trasparenza e l’accountability sono dei miraggi; un sistema dove ricercatori e professori associati hanno gli stessi compiti didattici dei professori ordinari ma nessun riconoscimento adeguato del loro lavoro; un sistema dove l’anzianità anagrafica, non la capacità scientifica, determina il rango e il ruolo del singolo.
Contro questo sistema, francamente indifendibile, protestavano gli studenti di Torino, e ad essi non è stata data alcuna risposta, se non una bella dose di manganellate. Una soluzione che risponde a un doppio obiettivo: riducendo la protesta studentesca allo scomposto agitarsi di alcuni violenti si distoglie l’attenzione dai problemi reali dell’Università, messa sotto assedio mortale dal governo Berlusconi con i tagli predisposti dal duo Tremonti-Gelmini (tagli mai rientrati sebbene furbescamente si sia cessato di ricordarli sulla stampa e alla televisione); ma allo stesso tempo considerare i limitati disordini di Torino come l’unica faccia della protesta studentesca serve a togliere spazi di azione e di manovra alle componenti studentesche che non cercano lo scontro per lo scontro. Il governo e il ministero dell’Istruzione (che a quanto pare non è neppure più «pubblica» ma solo «istruzione») possono quindi dichiarare che la protesta non li fermerà ignorando i motivi veri della protesta, meno urlata ma più concreta, che da mesi ricercatori e studenti portano avanti.
La difesa dell’università pubblica, che non deve diventare una fondazione privata ma restare un patrimonio della collettività, finanziata e sostenuta prevalentemente dal denaro pubblico e dal pubblico controllata, dovrebbe essere la priorità di ogni persona che si candida a cariche elettive, anche per il Parlamento europeo. Pensiamoci e chiediamo un impegno di questo tipo a tutti i candidati. Il mio, lo avete qui.


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